Oliviero Mogno

MISCELLANEA
SCRITTI POLITICI

LA CRISI DEL P.C.I.
I TERMINI DEL DISSIDIO







 

   Le accuse che, in pubbliche e private diatribe, generalmente vengono scagliate al Partito Comunista Italiano dai suoi tradizionali avversari politici sono sempre state un po' banali, ingenue e, per il loro ripetersi uniforme e monotono, noiose. Ma da qualche tempo a questa parte, in seguito all'acuirsi della situazione internazionale, la polemica s'è riaccesa e appuntata intorno a un problema veramente vivo e scottante: quello delle relazioni fra il P.C.I. e il P.C. russo. L'importanza di questo problema dipende appunto dal fatto che esso non è limitato all'ambito delle consuete e anodine rampogne, ma da esse trascende, e si sviluppa nel cuore stesso delle schiere comuniste incidendo profondamente nell'intimo delle sue forze e minandone pericolosamente la solidale compattezza. Qui i termini fondamentali del dissidio riguardano infatti l'indirizzo politico da seguire nei confronti degli avversari: è l'orientamento stesso del partito che è in discussione; orientamento sul quale tra i comunisti italiani è sempre esistita una sostanziale divergenza di idee che a più riprese è affiorata ma che stavolta soltanto, e per l'urgere degli avvenimenti politici mondiali e per il continuo rafforzarsi della corrente eterodossa, sembra esplodere in modo più clamoroso e violento.
   Il contenuto essenziale dell'interno conflitto sta in questi termini: Per il raggiungimento del fine ultimo della lotta, e cioè per la conquista del potere, conviene affiancarsi all'azione politica sovietica oppure operare indipendentemente da essa?
   La risposta non è tanto semplice e se da una parte sentiamo levarsi aspre invettive contro il «deviazionismo titista» e irridere sprezzantemente all'ingenua illusione di chi ritiene possibile una futura vittoria comunista senza l'appoggio «morale» delle forze sovietiche, d'altra parte ci è dato d'ascoltare argomentazioni certo non meno convincenti e suffragate da un'analisi obiettiva degli avvenimenti politici italiani dell'ultimo quarantennio.
   Secondo l'opinione di molti comunisti dissidenti, la passiva sottomissione delle correnti italiane di estrema sinistra ai centri rivoluzionari russi risale agli anni della prima guerra mondiale quando, in seguito alla disfatta delle truppe zariste e all'inanità degli sforzi del nuovo governo rivoluzionario per arginare l'incalzante avanzata tedesca che minacciava ormai di travolgere le forze stesse della rivoluzione, Mosca lanciò l'appello disperato: «Gettate le armi o soldati asserviti alle forze della reazione capitalista; non vi siano né vinti né vincitori; siete tutti proletari e come tali unitevi per il trionfo della rivoluzione mondiale». Appello disperato e drammatico, questo, indirizzato formalmente ai proletari del mondo intero, ma in sostanza diretto alla Germania ove l'estensione dell'incendio rivoluzionario avrebbe rappresentato l'unica possibile via di salvezza per la patria russa.
   Perché dunque, se non per cieca e sciocca passività, i dirigenti dell'estrema sinistra italiana si adoperarono con tanto ottuso zelo a diffondere questo appello tra la popolazione e soprattutto tra le truppe che in quel momento tenevano impegnate considerevoli aliquote di quelle forze austro-germaniche che già stavano dilagando in territorio russo?
   I risultati negativi di una tale propaganda non tardarono a manifestarsi e non è qui il caso di ripetere, perché già storicamente acquisito, quale parte abbiano avuto sull'esito disgraziato della dodicesima battaglia. Esito che se non toccò le più estreme e tragiche conseguenze fu per il risorgere nell'animo dei soldati di quel profondo senso di riscossa nazionale ch'essi dovettero poi tanto amaramente scontare al termine della guerra quando, tornati alle proprie case vittoriosi ma esausti, si videro accolti dagli insulti e dal dileggio di minacciose squadracce sventolanti la rossa bandiera dei lavoratori sulla quale, nei lunghi anni di trincea, avevano forse riposto le loro più ardenti speranze. Fu questo atteggiamento apertamente sovversivo e antinazionale delle estreme sinistre che indusse i milioni di reduci avviliti e offesi a organizzarsi nelle file di quel combattentismo che per forza di cose doveva opporsi ai suoi denigratori e doveva più tardi costituire il nerbo dei risorgenti movimenti politici di estrema destra.
   L'assassinio del grande mutilato di guerra Giulio Giordani che il 21 novembre del '20, levatosi dal banco, ove era assiso in seduta di consiglio comunale a Bologna, per opporsi con la parola all'arbitraria sostituzione, sul balcone di palazzo d'Accursio, della bandiera nazionale con un vessillo di fazione, fu fatto segno da parte dei colleghi consiglieri di sinistra a una nutrita scarica d'armi da fuoco che lo abbatté esanime al suolo; questo assassinio assurdo e nefando non segnò che uno degli atti più patenti e clamorosi di quell'aperta sfida che le sinistre avevano lanciato all'intera nazione. Sfida che aprì fatalmente la strada all'affermarsi e consolidarsi di quelle forze reazionarie che da lungo tempo ormai paventavano il progredire dell'autentico socialismo e che finalmente ebbero buon gioco per servirsi, con subdola astuzia, dell'istintiva, irrefrenabile onda di sdegno e di rivolta popolare e delle nascenti forze nazional-combattentistiche onde instaurare col fascismo un regime di tutela dei loro classistici privilegi.
   Ci si potrebbe chiedere cosa sarebbe avvenuto se in quel tempo l'estrema sinistra avesse assunto un atteggiamento opposto: si fosse cioè proclamata vessillifera della solidarietà sociale e nazionale e tutrice degli interessi materiali e morali di tanti milioni di cittadini tornati esausti dalla lunga guerra e sinceramente anelanti a un profondo rinnovamento sociale. La risposta ai «se» nella storia è sempre problematica, ma si può plausibilmente supporre che il vecchio partito di Turati avrebbe potuto cogliere facilmente l'opportunità per salire legalmente al potere.
   Si ebbero invece 25 anni di fascismo e quando, al termine della seconda grande guerra, ogni suo ultimo residuo finalmente disparve, andò indubbiamente perduta per le sinistre un'altra grande occasione, e proprio per le medesime ragioni.
   Dopo la lunga e dura tirannia, dopo tanti anni di amarezze, di disinganni, dopo tutte le sofferenze conseguenti alla stolta guerra aggressiva, meritatamente finita nell'ignominia, dopo la grande prova di tenace e vittorioso eroismo dei combattenti sovietici, la grande maggioranza della popolazione italiana, anche per la troppo lunga vacanza della vita liberale, non sapeva scorgere ormai altra possibile successione al defunto e detestato regime che nelle risorgenti e gagliarde file social-comuniste.
   Il fascismo aveva perduto l'Italia, ma i partigiani, tra i quali i comunisti ebbero stavolta una parte tanto onorevole e preminente, l'avevano redenta. Le grandi masse popolari italiane sentirono profondamente questo grande fremito d'orgoglio e di simpatia: quasi nessuno osava più pubblicamente definirsi né intimamente considerarsi «borghese».
   Era il momento buono, ma i grandi dottori marxisti ch'ebbero la fronte cinta di lauro negli atenei rivoluzionari di Mosca non fecero nulla. Sfaldarono, invece, la risorgente fede col ritorno al vieto e fallito atteggiamento negatore della solidarietà nazionale a vantaggio esclusivo della loro patria d'adozione per la quale soltanto, evidentemente, avevano fino allora combattuto. Come si raggelò l'entusiasmo delle masse quando si constatò che i comunisti italiani, più realisti del re, si auguravano e invocavano non solo la restituzione dei territori orientali popolati da allogeni, il che avrebbe potuto costituire l'affermazione di un principio generale di giustizia internazionale, ma amputazioni del territorio nazionale ben più vaste e mutilanti di quanto nessuno avesse mai concepito nei propri disegni più ambiziosi. Come fu chiaro a tutti che ogni atto, ogni mossa del P.C.I. era in appoggio a interessi stranieri e in evidente opposizione agli interessi popolari. Come fu facile per De Gasperi dire, il 18 aprile, agli italiani: Dovete scegliere fra il nostro partito, che solo può validamente competere col fronte comunista, e quest'ultimo che è asservito alla Russia e che trasformerebbe rapidamente l'Italia in una provincia sovietica, come è avvenuto alla Cecoslovacchia. La maggioranza dei suffragi raccolti dalla Democrazia Cristiana è provenuta da quelle masse politicamente amorfe che in un primo momento si erano sentite sinceramente solidali con le sinistre, ma che assolutamente non volevano ridurre la propria patria in catene.
   Ma è dunque possibile trovare una spiegazione a questo perseverante e apparentemente assurdo atteggiamento antinazionale dei comunisti italiani?
   Sì, la spiegazione c'è ed è semplice. I capi di queste correnti estreme non credono, come non hanno mai creduto, per convinzione intima o conculcata, nella possibilità, o nella opportunità, di salire al potere nel giuoco libero o violento delle forze politiche nazionali. Essi hanno per ben due volte sopravvalutato, o finto di sopravvalutare, i loro avversari e a essi si sono sostanzialmente arresi. Confidano esclusivamente nelle organizzate forze esterne dalle quali si aspettano la soluzione a tutti i loro problemi con l'avvento del «nuovo ordine» instaurato coercitivamente.
   Questo, in rapida e sommaria sintesi, il giudizio di molti comunisti scismatici i quali, a differenza dei capi ortodossi, credono sinceramente nella possibilità di una vittoria della classe proletaria italiana e sono fermi nella profonda convinzione che la vera Patria del socialismo è là ove si lotta per l'affermazione con le proprie forze e coi metodi più consoni alla realtà storica del proprio paese, e non già dove si trama nell'ombra per l'asservimento all'imperialismo straniero. Le loro nascenti forze sono materialmente ancor deboli in confronto alla capillare organizzazione della corrente ortodossa, ma sono tuttavia rigogliosamente vitali giacché tutto lascia presumere che in esse sia il seme fecondo di un ideale vero e sincero. Forze numerose le altre, ma inficiate dalla debolezza dei ranghi a tesseramento coatto e quindi pletoriche e malate; tanto malate che il loro capo, assieme ad altri colleghi cominformisti occidentali, è dovuto accorrere alla Berchtesgaden di Mosca per motivi di cura.
   Quali prevarranno? Arduo è rispondere, ma nella giovane Jugoslavia troviamo un precedente e un esempio significativi.
   Il comunismo jugoslavo si trova, di fronte a quello russo, in posizione analoga a quella che ebbe il falangismo di fronte al nazismo: rifiutò la supina sottomissione all'aggressiva e imperialista politica tedesca e salvò così il paese e il regime. Il comunismo ortodosso italiano si trova invece, di fronte a quello russo, come il fascismo verso il nazismo: vedeva il proprio definitivo trionfo nella guerra di conquista al seguito dei carri armati del potente e temuto vicino, ma fu la sconfitta del paese e la sua fine.

 

   Manoscritto a firma ERGO senza indicazione della data. Non risulta se sia stato oggetto di pubblicazione.