Oliviero Mogno

MISCELLANEA
SCRITTI POLITICI

SENZA INFINGIMENTI




 

 

 

   Le cause in tribunale si fanno quando si sa d'aver torto. È questa una «boutade» spiritosa, perché rappresenta con efficacia l'atteggiamento paradossale che non di rado assume il contendente il quale, a corto di fondati argomenti e di fronte all'intransigente fermezza di un avversario convinto della propria ragione, inscena, in ultima istanza, una chiassosa pubblicità sul suo caso e si decide ad adire il tribunale. Non si sa mai: alle volte un buon avvocato, servendosi di abili cavilli giuridici, potrebbe rovesciare una posizione ormai perduta; eppoi, per chi sa d'aver torto, il ricorso in giudizio è comunque vantaggioso perché, per quanto esigua, una probabilità di vittoria, sia pur parziale, sussiste sempre e forse la si può strappare rischiando solo le spese giudiziarie, mentre invece chi è convinto del proprio buon diritto intentando la causa rischia sempre oltreché le spese, anche il riconoscimento del diritto stesso.
   Una chiassata che ricorda questo atteggiamento del «perso per perso» è quella che nel marzo scorso è stata inscenata per «Trieste all'Italia» e che recentemente è stata coronata dall'accordo londinese. Ma perché, se son convinti di aver ragione, invece di far tanto strepito non tentano di mostrare con suadente pacatezza la forza della loro tesi?
   Si ode ripetere a perdifiato il luogo comune dei seicentomila morti. Ebbene, vorremmo rispondere: ove fate consistere, ripetendo questo slogan, il vostro diritto su Trieste? Non nel sacrificio, preso a sé, di tante vite umane poiché, dall'altra parte, almeno altrettante vite furono sacrificate per impedire la conquista italiana di Trieste; non nell'esito vittorioso del sacrificio ché, in tal caso, non fareste che convalidare, dopo la sconfitta della seconda guerra, il diritto su Trieste della Jugoslavia. E allora lasciamo in pace i seicentomila morti della prima guerra. Giù il cappello di fronte al sacrificio loro e a quello di tutti i combattenti di tutte le guerre, e finiamo di rievocare il loro glorioso ricordo con la mira di suscitare nell'anima popolare psicosi false e surrettizie.
   Si ode pure ripetere che l'Italia ha diritto a Trieste perché questa è etnicamente italiana. Qui bisogna distinguere l'affermazione di principio da quella di merito: la prima, che sarebbe accettabile, è tuttavia contraddittoria e pregiudizievole al conclamato diritto italiano sul possesso del Tirolo meridionale, possesso per il quale si preferisce sostenere la prevalenza di quel criterio geografico che, non si sa perché, dovrebbe perdere ogni significato riguardo al problema triestino; la seconda, cioè l'affermazione dell'italianità etnica di Trieste, contiene sì una parziale verità in quanto la popolazione triestina è di fatto parzialmente italiana, ma tutto sta a stabilire, appunto, l'effettiva proporzione di questa aliquota etnicamente italiana, il che sembra alquanto difficile poiché, trascurando i virgulti di recente trapianto, la popolazione propriamente autoctona è costituita, nella quasi totalità, da individui etnicamente spuri? con ascendenze ramificate fra le stirpi più varie tra le quali, tuttavia, quella di ceppo slavo è con ogni probabilità preminente. È vero che su questo litorale la cultura italiana ha prevalso da secoli, tanto da diffondere, ben oltre i limiti etnici, la lingua di Dante, ma ciò non sposta la situazione rigorosamente etnica del territorio che, sotto questo aspetto, mantiene una sua fisionomia del tutto propria e particolare.
   Qualcuno invece, invocando il principio dell'autodecisione dei popoli, reclama un plebiscito. Il principio è sacrosanto, ma per la sua applicazione occorrono certe premesse e certe garanzie. Non basta che sia garantita la libertà di voto, che, in fondo, c'era anche in regime fascista; bisogna che sia altresì garantito di poter discutere liberamente tutti gli aspetti del problema e di poter diffondere liberamente il proprio pensiero in un'atmosfera di serena e tranquilla obiettività. E affinché queste garanzie siano effettive sono indispensabili certe premesse che oggi, e ciò va detto chiaro e con la massima energia, non sussistono affatto. Oggi a Trieste basta solo astenersi dall'esporre la bandiera italiana nei giorni prescritti dal sindaco, o dal partecipare alle tripudianti coreografie scioviniste, per essere imputati di tradimento, per entrare nel novero dei reietti, per essere gettati con disprezzo nella «trincea nemica», come ha detto ignobilmente il novello federale al poeta Saba, o «al di là della barricata», come diceva    Mussolini. Perché, bisogna confessarlo, l'unico vero, effettivo e incontrastato predominio italiano è qui rappresentato dai detentori del potere economico che finanziano e foraggiano e dai quali dipendono tutti i poveri cirenei che per tirare avanti e guadagnare un tozzo di pane devono godere l'alto privilegio della loro benevolenza.
   Sembra chiaro dunque che per addivenire a un referendum plebiscitario, per lasciare alla libera decisione popolare la scelta della dipendenza del Territorio dall'uno o dall'altro degli Stati confinanti o della indipendenza definitiva, sia necessario in primo luogo addivenire alla neutralizzazione politica ed economica e alla riunificazione delle due Zone A e B, o, in altri termini, alla applicazione del trattato di pace, sia pure emendato da una nuova clausola relativa a un futuro plebiscito.
   Perché mai, se è davvero profondo e sincero il loro convincimento della genuina volontà di questa popolazione di riunirsi all'Italia, perché mai gli elementi di punta dell'irredentismo paventano questa soluzione che al sommo pregio della legalità unisce quello dell'equità e della giustizia? Perché mai, pur di rafforzare il loro predominio economico sulla città, questi grandi patrioti son disposti a rendere irri mediabile e definitiva l'attuale occupazione jugoslava della Zona B? È forse per mascherare questo loro calcolo abominevole ch'essi dan di continuo fiato alle trombe della proposta tripartita sapendo perfettamente che non esiste alcuna possibilità presente o futura di una sua pratica attuazione? Quanti sono ancora gli ingenui che non vedono come il loro proclamato patriottismo altro non sia in realtà che il paravento dietro al quale si nasconde l'intenzione di aggiogare la popolazione triestina a un regime sempre più accentuatamente reazionario? E quanti ancora i ciechi che non vedono come il rifiorire economico del Territorio non potrà realizzarsi sinché Trieste non assuma il suo grande ruolo di città libera, franca e anseatica?
   Ma gli irredentisti hanno, oltre tutto, l'impudenza di sostenere che la loro volontà di sottomettere al più presto Trieste alla sovranità italiana è ispirata anche da un senso di difesa del mondo occidentale; sicché ci sarebbe da chiedersi se costoro ignorino, per avventura, come l'attuale gravissimo disagio europeo, determinato dalla occupazione russa dell'Austria orientale e dalla conseguente permanenza di truppe russe in Ungheria e in Rumenia, dipenda proprio dalla mancata applicazione delle clausole relative al T.L.T. del trattato di pace italiano.
   Certo non è da supporre che sia la corrente irredentista triestina ad aver tanta influenza sulle sorti politiche europee. È chiaro, piuttosto, che questa incontra il pieno appoggio dell'attuale Governo italiano il quale, evidentemente, si preoccupa più degli interessi politici della Chiesa che non di quelli dello Stato. Infatti la costituzione effettiva del T.L.T. rappresenterebbe per l'Italia l'unico mezzo per sottrarre alla dominazione jugoslava quella parte del territorio conteso che si chiama Zona B, mentre per la Chiesa significherebbe perdere anche la Zona A all'esercizio delle prerogative derivatele dai patti lateranensi. Forse è difficile per un governo clericale, quando si presenti questo contrasto di interessi, trascurare quelli della Chiesa, ma questa difficoltà diviene impossibilità quando all'incitamento degli ambienti ecclesiastici si aggiungono dalla piazza le urla tumultuanti del rinascente estremismo fascistoide ancora una volta, per tragica ironia, ammantato di quel tricolore che già gettò nell'abisso della sconfitta. E questo governo clericale, giocando astutamente sulle «difficoltà interne» che lo costringono sempre a non recedere da una politica di prestigio, fa finché può il suo gioco con gli alleati puntando sulla carta delle necessità elettorali e della fedeltà atlantica.
   Sono queste tre correnti: capitalista, fascista e clericale, ancora una volta confluenti nel grande fiume del nazionalismo italiano, che i troppo deboli argini dell'autentica democrazia e dell'autentico patriottismo non potranno, forse, a lungo contenere.
   Trieste può certo salvarsi dalle tumultuose acque devastatrici, ma per la bisogna deve saper costruire a tempo un proprio saldissimo argine lungo il perimetro del suo Territorio.

   A firma ERGO (Erminio Govolo), questo articolo è stato pubblicato da Il Corriere di Trieste di domenica 18 maggio 1952.