Oliviero Mogno
MISCELLANEA
SCRITTI POLITICI
A PROPOSITO DEL PLEBISCITO A TRIESTE
La nota di Ergo, «Plebiscito a Trieste?», pubblicata nel fascicolo precedente, ha provocato questa risposta polemica, che pubblichiamo facendola seguire dalla replica di Ergo.
Nel ripubblicare l'articolo «Plebiscito a Trieste?» apparso nell'ultimo fascicolo di Occidente, il Corriere di Trieste del 19 ottobre 1952 l'ha definito «uno studio rigorosamente e documentatamente obiettivo».
Sul rigore della documentazione basti solo quest'osservazione: Ergo fa ammontare a 193.000 i voti validi delle ultime elezioni amministrative triestine, laddove essi sono stati 178.984 (vedi Rivista mensile della città di Trieste, 1952, n. 6, pag. 7). A parte questa menda, sono altrimenti apprezzabili le considerazioni di Ergo su quelle che, a prima vista, sembrerebbero esatte deduzioni.
Ergo attribuisce al «gruppo dei movimenti indipendentisti» (?) una percentuale di 20% di voti. «Il Fronte dell'Indipendenza» ha riportato il 12,5% e il 2,5% il «Blocco Triestino». E l'altro 5%? Può essere cercato nella somma delle percentuali ottenute dal «Fronte Popolare Italo Sloveno» (2,8%) e dalla «Lega Democratica Slovena» (2%)? Uno zelatore del T.L.T., quale si mostra di essere Ergo, non può conteggiare a proprio vantaggio i voti ottenuti dalla Stella Rossa di Tito, senza prestare il fianco a pericolosi commenti.
Non computare fra i voti favorevoli alla soluzione italiana quelli ottenuti dal P.S.V.G. e dal P.S.I. è per lo meno disinvolto. Durante la campagna elettorale, l'on. Giusto Tolloy in testa, gli esponenti del P.S.I. hanno sempre proclamato di volersi battere appunto per la soluzione italiana. Che se poi, proprio in questi giorni, l'unico consigliere comunale del P.S.I. a Trieste ha, in seduta pubblica, ritirato quegli impegni, è cosa che riguarda la sua coscienza, ma non sminuisce l'arbitrio di Ergo.
Non si può affermare che il P.S.V.G. «non ha voluto assumere una posizione intransigente sul problema di Trieste, perché preferisce rimetterne la soluzione a un futuro plebiscito», senz'aggiungere che i socialisti democratici hanno sempre insistito sia concesso ai giuliani d'essere arbitri del proprio destino, nella certezza che il risultato del plebiscito non può essere che uno.
Pertanto Ergo è in errore quando sostiene che appena il 55% dei votanti sono andati alla soluzione italiana; con maggiore rispetto della verità avrebbe dovuto dichiarare che tale percentuale è stata del 62,2%. Per tacere del fatto che non è possibile trarre indicazione alcuna del risultato d'un eventuale plebiscito, argomentando il risultato d'una consultazione popolare che altro fine aveva.
L'accenno agli esuli istriani e dalmati «che hanno trovato a Trieste accoglimento e, in molti casi, soddisfacente sistemazione» è un inelegante pleonasmo. Ma Ergo tradisce maggiormente l'animus proprio allorché dice che «questi nuovi venuti paventano una soluzione del T.L.T. conforme al Trattato di pace appunto perché in tale evenienza essi verrebbero automaticamente considerati apolidi (?) e potrebbero essere costretti a un nuovo esodo». Qua ci sarebbe da parlare lungamente. Basti questa considerazione: ma solo ragioni pratiche inducono l'uomo a tenere questo o quell'atteggiamento?
Apprezzare in 14.000 il numero degli esuli istriani e dalmati che non avrebbero il diritto di prender parte al plebiscito, «a eccezione di una minoranza di quanti provengono dalla Zona B», è affermazione avventata. Ed è per lo meno poco esatto sottacere che, in caso di plebiscito, dovrebbero essere chiamati a dare il loro voto tutte le migliaia di esuli sparsi per ogni contrada d'Italia, che qui avevano la loro residenza il 10 giugno 1940.
Come si può prestar fede a Ergo quando afferma che la Zona B «a prescindere da una minoranza irredentista», voterebbe per il T.L.T. e non per l'Italia? Che cosa lo autorizza ad affermare che il T.L.T. sia «destinato a più sicura prosperità»?
Si rilegga attentamente il capoverso che inizia con le parole «Vi è poi da considerare un'altra questione...» e si vedrà di che sia materiata la rigorosa obiettività di questo studio.
È risibile sentire Ergo sostenere che i gruppi monopolistici triestini sono legati «alle più accese correnti nazionalistiche italiane». I troppo prudenti capitalisti locali stanno invece alla finestra, in attesa di vedere la soluzione più certa. Dire però che un professore è stato estromesso dall'Università a seguito delle pressioni dei capitalisti (un Consiglio di Facoltà, è noto, quando non riconfermi un «incarico», non fa altro che esercitare un inappellabile diritto) significa svisare i fatti e rivolgere gratuita ingiuria a uomini noti per essere piuttosto lontani da certi ambienti.
Dopo questo sfogo Ergo accatta anche argomenti cari alla propaganda titina, quando insinua («Nell'atmosfera di maggior libertà, assicurata in caso di plebiscito...») che le ultime consultazioni popolari abbiano avuto luogo in un clima di scarsa libertà.
Circa l'interpretazione data da Ergo della linea della politica inglese nei confronti di Trieste, val meglio sorridere. E basta.
Ma articoli come questo non suscitano solo sorrisi a Trieste. Articoli come questo avvalorano la convinzione che sia largamente diffusa al di là dell'Isonzo la tendenza a giustificare la fuga del gen. Ferrero, la sera dell'8 settembre 1943, e a perdonare a quelle decine di migliaia di figli di mamma, il nerbo del suo Corpo d'Armata, l'essersi frettolosamente messi in mutande, il giorno dopo, per non farsi «cogliere» con indosso l'impaccio del grigioverde.
Ma è sperabile che qualcuno dei settantamila prigionieri fatti allora nella Venezia Giulia dalla Wehrmacht, arrossisca all'orrendo ricordo. Se non altro per rispetto ai caduti, se pur ne sa qualcosa, della «Berenice». E solo questo segreto, silenzioso rossore può ripagare i triestini, o meglio, qualche triestino, da tante amarezze.
Perchè qualcuno qui a Trieste —a differenza di tanti obliviosi Palermitani e Torinesi— ravvisa una profonda giustizia alla base della tremenda ingiustizia che incombe sul dramma vissuto dal 1943 fino a oggi dai giuliani: deve pur essere espiato in qualche modo il delitto commesso dal manigoldo fascista che tutelava i supremi interessi della Nazione con un manrovescio dato in piena faccia alla donnetta del Carso, rea solo d'esprimersi in dialetto slavo. Una riparazione spetta alla nazione slovena. Poiché, in coscienza, né il Piemonte, né la Sicilia possono pagare, paghi per tutti la Venezia Giulia. Ma paghi in silenzio, per carità! Gli altri possono fare una cosa sola: arrossire in silenzio.
Stelio Crise
Ho l'impressione che le confutazioni del sig. Stelio Crise siano un coacervo di elementi confusi e inconsistenti. La prima confusione è infatti alla partenza ove è detto: «Ergo fa ammontare a 193.000 i voti validi delle ultime elezioni amministrative triestine, laddove essi sono stati 178.984 (vedi rivista ... ecc.)». In realtà, nel mio articolo avevo affermato: «... i voti validi alle avvenute elezioni nella Zona A sono stati complessivamente 193.000», e riconfermo sostanzialmente quanto avevo detto. Per chi volesse una maggior minuziosità, dirò anzi che la cifra ufficiale è 193.886 (vedi Bollettino di Statistica della Zona britannico-americana del T.L.T., edizione ufficiale del Governo Militare Alleato, n. 3, anno VII, fascicolo maggio-giugno 1952, pag. 101). Su questo punto il mio contraddittore è caduto evidentemente in un grossolano equivoco giacché la cifra, da lui indicata, di 178.984 corrisponde esattamente a quella dei voti validi nel solo Comune di Trieste e non nell'intera Zona A alla quale mi ero esplicitamente riferito e che comprende, oltre al Comune di Trieste, quelli di Muggia, di S. Dorligo della Valle, di Duino-Aurisina, di Sgonico e di Monrupino. Non so se il sig. Crise sia triestino: se lo fosse, queste cose avrebbe il dovere di sapere; e comunque avrebbe il dovere di appurare prima di impegnarsi per iscritto in una pubblica contestazione.
Preso l'abbrivio, il Crise continua imperterrito con una serqua di confutazioni fallaci, che solo un po' più di diligente riflessione avrebbe potuto evitargli, e così mi rimprovera di aver incluso nel computo dei voti alla corrente indipendentista quelli del Fronte Popolare Italo-Sloveno e della Lega Democratica Slovena. Ma, santa pace, non sa il mio egregio contraddittore che questi due movimenti politici hanno ben chiaramente proclamata la loro adesione alla corrente indipendentista? E a prescindere pure dal loro indirizzo ufficiale, non gli sembra che sarebbe ingenuo, oltreché assurdo, supporre che, in caso di consultazione plebiscitaria sulla scelta: Italia-Jugoslavia-Indipendenza, essi, se pur fossero in pectore fautori di una annessione alla Jugoslavia, disperdessero i loro voti a sostegno di quest'ultima soluzione che, come tutti sanno, sarebbe destinata a sicuro fallimento?
E come spiegare, se non come un... lapsus calami, l'altro rimprovero di «non computare fra i voti favorevoli alla soluzione italiana quelli ottenuti dal P.S.V.G. e dal P.S.I.» quando in realtà io avevo distinto questi partiti da quelli «che reclamano senz'altro (senz'altro significa senza plebiscito) la riannessione di Trieste all'Italia» solo nell'elencazione dei loro indirizzi programmatici relativi alla questione territoriale (e del resto anche indicando l'indirizzo programmatico del P.S.I. avevo proprio detto che questo partito, «pur lamentando la mancata applicazione delle clausole relative al T.L.T. del trattato di pace, si dichiara fautore di una soluzione italiana»), mentre poi, nel computo dei presunti suffragi plebiscitari, ho inglobato entrambi questi partiti nel gruppo nazionale in opposizione al gruppo indipendentista attribuendo, rispettivamente, il 49 e il 51 % dei voti?
Basta, mi sia concesso di sorvolare su altre repliche del Crise, le quali per la loro stessa vaghezza non chiedono una precisa discettazione, e di giungere tout-court alla chiusa del mio contraddittore i cui finali accenti —che ritengo sinceri— di accorata deprecazione per le angherie e le viltà fasciste trovano piena rispondenza nel mio animo e, a onta della asprezza un po' burbanzosa di talune sue espressioni, mi ricongiungono a lui in uno slancio di simpatia. E in nome di questo sentimento gli vorrei dire con confidente cordialità: no, no, non è Trieste che deve scontare gli errori e gli orrori che furono principalmente d'altri e che essa ha più d'altri subito; proprio per questo sarebbe sommamente ingiusto ch'essa dovesse pagare per tutti con lo smembramento, l'asservimento e la definitiva rovina del suo territorio; fuori dunque, fuori dagli ampollosi veli, retorici e bugiardi, che oscurano lo sguardo e imprigionano la mente e vincolano la libertà. E prendendolo a braccio e sospingendolo con gesto invitante vorrei sussurrargli i versi indirizzati a «quel di se stesso antico prigionier»:
Vieni: alla libertà brindisi io faccio:
Cittadino Mastai, bevi un bicchier.
Ergo
La pubblicazione di «Plebiscito a Trieste?» provocò nella città giuliana vivaci polemiche, delle quali si trova traccia per esemplo sul Messaggero Veneto di martedì 21 ottobre 1952 e su Il Corriere di Trieste di mercoledì 22 ottobre 1952. A Occidente pervenne una lettera di Stelio Crise che fu pubblicata seguita dalla replica di Ergo (a. VIII, n. 5, settembre-ottobre 1952, pagg. 353-356).