Oliviero Mogno

MISCELLANEA
LETTERE

CONTRO LA NAZIONALIZZAZIONE
DELL'INDUSTRIA ELETTRICA




 


Trieste, il 22 febbraio del 1962

   Caro Pepi*,
   Mi è parso di capire, da quanto ho letto sui giornali, che tu non appartieni alla schiera degli entusiasti della svolta e, se la mia interpretazione è esatta, vorrei esprimerti il mio più sincero compiacimento per la tua giusta valutazione della situazione.
   Senza entrare nel merito dell'aspetto politico dei vari problemi connessi a questo sorprendente giro di valzer, né della legittimità di un così radicale e repentino mutamento d'indirizzo da attuarsi senza il suffragio della volontà popolare, mi permetto soltanto di affermare, col conforto di una certa competenza tecnica, che la nazionalizzazione dell'industria elettrica italiana (la cui effettiva consistenza patrimoniale ammonta complessivamente a circa 10.000 miliardi) non potrebbe essere realizzata, né in tre mesi né in tre anni, senza procedere a una vera e propria spoliazione della proprietà privata, e, se comunque realizzata, non potrebbe non pregiudicare nel modo più grave, e forse irreparabile, il presente e soprattutto l'avvenire di quella mirabile ascesa dell'economia nazionale alla quale è indissolubilmente legato il benessere di tutta la popolazione.
   Ti prego di scusare se tale affermazione è espressa apoditticamente, ma per dartene la dimostrazione tecnica dovrei scrivere almeno un centinaio di cartelle (ma chissà che una volta o l'altra non mi decida a farlo) oppure incontrandoti un giorno, come spero, trattenerti in una lunga chiacchierata.
   Intanto mi accontento di mandarti le mie congratulazioni, di farti avere le nostre buone notizie (il piccolo Dario si è laureato con lode l'ottobre scorso) e di inviare a te e ai tuoi cari i nostri saluti più cordiali.

Tuo affezionatissimo
Oliviero

 


Trieste, il 27 giugno del 1962

   Caro Pepi*,
   È ormai storicamente provato che tra le molteplici cause concomitanti che provocarono la caduta del nazi-fascismo, quella veramente essenziale e determinante non fu la coalizione militare degli eserciti alleati, né l'azione politica delle forze organizzate nella Resistenza, bensì una composizione poetica che fece repentinamente cadere la benda dagli occhi di tanti fuorviati e illusi. Ricordi?:
Hitler deve, suo malgrado,
rinunciare a Stalingrado...**
   Ora, per quanto limitatamente alla sfera politica italiana, mi sembra si presenti un caso del tutto analogo, cosicché io, rintracciato uno dei due poeti, autori di quei versi immortali, l'ho convinto a gettare lo schema di una nuova composizione che ti mando nel foglio allegato e che dovrebbe essere abbellita e completata dal secondo autore, ben più abile e geniale, col quale spero tu abbia mantenuto i frequenti rapporti di un tempo.
   Chissà che anche stavolta non si riesca a rimettere le cose a posto!
   Molto cordialmente

Il tuo affezionatissimo
Oliviero

 

I SETTE DISCOLI
Abbenché con sforzi inani
tenti il discolo Fanfani
di mostrare al mondo intero
lo splendor bianco del nero,
tutti sanno ormai lo stesso,
perché il mondo non è fesso,
che non usciremo indenni
dal connubio con il Nenni.
Trabucchino, la bardassa,
gira il torchio della tassa
mentre il mago Saraceno
i confetti col veleno
tutto intento è ad indorare
pria di farceli ingoiare.
E La Malfa e Tremelloni
col compare Saragàt
ci propinano i bocconi
statizzati al kilowàtt.
Cosicché, a lasciarli fare,
questi matti da legare
non soltanto avranno i treni
per uccider tanta gente,
né le sole sigarette
per poterci intossicare
col fetore pestilente,
ma potranno trastullarsi,
oh ragazzi sbarazzini,
con caldaie e alternatori
e con dighe e con bacini.
Tra non molto tempo ancora
tutto andrebbe alla malora.
Ma ora basta: il vostro chiasso
si è protratto troppo in là.
È arrivata ormai all'estremo
la pazienza di papà.

 




Trieste, il 2 luglio del 1962


All'onorevole Amintore Fanfani
Presidente del Consiglio dei Ministri
Viminale - Roma

   Illustre Signor Presidente,
   Sono il nipote dell'economista Tullio Martello e La prego di voler ascoltare le mie parole come se, per bocca mia, Le parlasse il mio compianto nonno.
   La statizzazione dell'industria elettrica in Inghilterra e in Francia fu determinata, oltreché dalle ben note ragioni tecniche di rinnovamento e unificazione, dal presupposto di sollevare il risparmio dall'ingente onere imposto dalla necessità di ricostruire rapidamente gli impianti dopo le distruzioni belliche. Pertanto non mi sembra plausibile additare tali esempi a sostegno di una tesi opposta: quella di mortificare l'iniziativa privata e di depauperare il risparmio italiano privandoli del loro frutto più ammirevole e cioè di un settore industriale tecnicamente efficiente e economicamente rispondente alle esigenze del Paese.
   Mi sembra piuttosto che l'unico motivo che possa offrire una logica spiegazione al progettato provvedimento di statizzazione dell'industria elettrica italiana sia quello di fornire allo Stato lo strumento per l'attuazione di una pianificazione economica integrale. In altri termini, lo Stato, impossessandosi forzosamente di tutti gli impianti di produzione e di distribuzione dell'energia elettrica, vale a dire di circa un terzo di tutta l'industria italiana, sarebbe in grado di estendere sui rimanenti due terzi dell'industria nazionale non solo il proprio controllo, ma, coercitivamente, la propria volontà dirigistica.
   Ma tutto ciò condurrebbe, e per le difficoltà di transizione e per la fuga dei capitali, a una crisi dell'intera area produttiva, anzi a una crisi generale dell'economia, talché, a più o meno breve scadenza, si porrebbero inevitabilmente, da parte delle forze marxiste, nuove e continue istanze per la statizzazione di altri settori industriali al fine di giungere alla progressiva avocazione, da parte dello Stato, della maggior parte degli strumenti produttivi.
   Con ciò, indubbiamente, lo Stato diverrebbe sempre più totalitario giacché aumenterebbe il proprio potere nella misura stessa con la quale diminuirebbe il potere dei cittadini, i quali, una volta privati della libertà economica, perderebbero a poco a poco, per inevitabile conseguenza, tutte le loro libertà, e un giorno forse anche la libertà religiosa.
   È stato detto che, avviandosi per questa strada, si intende compiere un'opera di isolamento del comunismo. Mi consenta, illustre Signor Presidente, di manifestarle al riguardo, con tutto il rispetto ma con altrettanta franchezza, il mio assoluto dissenso, che è condiviso dalla maggior parte della popolazione italiana.
   Io non dubito che Ella vorrà convenire meco nell'opinione che la maniera più efficace per combattere il comunismo sia quella di dimostrare coi fatti che nei Paesi ove ancora sopravvive la libertà, il livello di vita materiale e morale supera quello dei regimi totalitari. Si dovrebbe quindi concludere che, qualora il Governo avesse chiesto al risparmio privato un sacrificio pari a quello che ora si accinge a imporgli, ma non già per impossessarsi dell'industria elettrica, sibbene per costruire acquedotti, per edificare scuole, per dare un'abitazione decente ai milioni di Italiani tuttora costretti a vivere nei tuguri, nelle baracche e nelle grotte, il Governo stesso avrebbe certamente riscosso più larghi consensi e avrebbe ben più lodevolmente ed efficacemente operato per l'affermazione di un più alto ideale umano, religioso, politico e sociale.
   È vero sì, e ne debbo dar atto, che si può combattere il comunismo anche per altra via: quella di dimostrare coi fatti che l'applicazione della dottrina marxista conduce alla depressione morale e materiale. Sotto questo aspetto, la bontà del fine che il Governo da Lei presieduto si propone di raggiungere potrebbe, in certo senso, giustificare anche i provvedimenti in elaborazione, ma mi sembra che la scelta del mezzo non sia la migliore, tanto più che è ormai storicamente provato come, all'errore, gli uomini siano per lor natura portati a reagire non già con la saggezza, ma, al contrario, con errori opposti e quindi, nella deprecata eventualità che ci incombe, con moti reazionari altrettanto insensati quanto violenti e nefandi.
   Io mi rendo conto delle difficoltà in cui Ella si dibatte nella situazione attuale, ma sono assolutamente certo della nobiltà dei sentimenti che La ispirano e pertanto sono convinto che, alle strette, posto di fronte al dilemma, Ella non esiterà ad affrontare qualunque sacrificio personale pur di evitare un sacrificio tanto grande all'intera nazione.
   Illustre Signor Presidente, io sono un uomo vecchio di anni e di esperienza ed è per questo che mi sono permesso di esprimerle, con accenti accorati e sinceri, il mio pensiero, sia pur nei brevi limiti acconsentiti da una lettera. Accolga dunque le mie parole come un segno di lealtà. Se tuttavia, contro la mia intenzione, non fossi riuscito che a dispiacerle, voglia accettare le mie più umili scuse e, comunque, credermi sempre il suo devotissimo

Oliviero Mogno

 

* Lettera all'amico on. Giuseppe Bettiol, per il quale nutriva sentimenti di stima, di affetto e di gratitudine.

** Sono versi di una lunga scherzosa serie di strofe che, la sera, attendono le trasmissioni di Radio Londra, insieme avevano composto negli ultimi anni del ventennio. Del componimento «poetico» purtroppo nulla resta, salvo qualche lacunoso ricordo della moglie:

«Lo sguardo è truce, l'aspetto è fiero,
generalmente di umore nero,
ai più piccini mette spavento
col suo guerriero paludamento».

«Corto di vista, lungo di mano,
tendenzialmente repubblicano,
al monarcato pur non si oppone
finché Vittorio gli tien bordone».
...
«Prepara rapidi colpi di mano
che se falliscon segue seccato
dalla finestra di un carro armato».
...
«Hitler deve suo malgrado,
rinunciare a Stalingrado,
perché ha preso molte botte
sia di giorno che di notte».
...
«Ma nel cuore del Cremlino
veglia il grande e buon Stalino».