Oliviero Mogno

MISCELLANEA
LETTERE

IL PREZZO DELL'AMICIZIA




 



Trieste, il 27 aprile del 1964

   Caro Signore**,
   Ho letto alcuni Suoi libri e mi sono piaciuti tanto da indurmi a scriverle qualche riga. Questa intenzione, per me affatto singolare, non trova spiegazione nella vanità dello sconosciuto che ambisce di corrispondere con lo scrittore di grido. Proprio no: vorrei anzi, se potessi superare lo scrupolo di contravvenire ai miei principi, tralasciare di apporre, alla fine, la mia firma, tanto essa è insignificante; e inutile, poiché La dispenso dalla cortesia di rispondermi.
   Le scrivo solo perché sento il bisogno, l'interiore bisogno, di dire una parola di ringraziamento a chi mi ha procurato non soltanto il piacere di una lettura tanto interessante, ma, ben di più, la soddisfazione di avere aggiunto qualcosa di non effimero al coacervo delle mie esperienze psichiche e mentali.
   Io non mi pongo nemmeno la domanda se il personaggio-autore dei Suoi racconti autobiografici (che sono indubbiamente i migliori) abbia o meno una personalità distinta da quella «vera» dell'autore, perché quel personaggio, vero o immaginario che sia, acquista significato e vita solo nella realtà dell'opera, e io non credo che la realtà dell'opera possa essere scissa dalla realtà dell'autore. Credo invece che la realtà dell'opera possa, come in questo caso, trasferirsi nel lettore e divenire parte della sua stessa realtà, così da stabilire fra autore e lettore quella specie di discendenza che, seppur non certificata da genealogiche raffigurazioni, è fondamento della ricchezza spirituale di ognuno. E di questo autore, da cui pur divergo su taluni giudizi*, mi par di comprendere e di considerare positivamente gli impulsi ch'egli biasima, non meno di quelli di cui si compiace e appaga, e ammiro la straordinaria vivezza delle immagini e la sottile facoltà introspettiva e lo stringente, talvolta perfino crudele, sforzo autocritico, e ammiro soprattutto la coraggiosa e altamente etica vocazione alla sincerità, al punto da provare per lui un senso di simpatia che potrei quasi chiamare sentimento di amicizia.
   Far capire e capire. Queste parole, profferite come una giustificazione ma esprimenti quell'invocazione comunicativa che è il più sublime anelito spirituale dell'uomo, lo scrittore rivolge alla grande folla anonima dei suoi lettori. Non gli dispiaccia, dunque, che da questa distesa brulicante si levi, anche di lontano, un braccio e si agiti in segno di saluto e di intesa.
Oliviero Mogno


   * Vedi, per esempio, la sua critica negativa a «Otto e mezzo» nella quale si rimprovera al regista di non aver sufficientemente approfondito i «suoi contenuti», quando invece, secondo il mio sommesso parere, il contenuto dell'opera felliniana, espresso in mirabili valori formali —e quindi artistici— consiste proprio nell'angoscia di chi inanemente si sforza di raggiungere tale approfondimento.

   ** Lettera inviata a Giorgio Bassani.

 

Roma, 14 maggio 1964

   Caro ingegnere,
   La ringrazio molto della sua lettera del 27 aprile, che ho ricevuto soltanto da pochi giorni. Lei non può nemmeno immaginare il piacere che mi ha fatto il suo braccio, levato in alto in segno di saluto e di intesa! Di questi tempi è così difficile imbattersi in cuori solidali...
Se viene a Roma, mi cerchi (8445025). Parleremo.
   Molti cari saluti dal suo

Giorgio Bassani

 

Trieste, il 16 maggio del 1964

   ...Tanto difficile che io direi quasi impossibile, e vedrà che fra dieci anni, cioè quando avrà raggiunto la mia attuale età, anche lei perverrà alle mie stesse amare conclusioni.
   Il fatto è che la solidarietà sentimentale implica l'amicizia, e l'amicizia, per essere veramente tale, implica sincerità, lealtà e fiducia. Ma sincerità, lealtà e fiducia hanno un prezzo molto alto, tanto alto che nessuno, o quasi nessuno, è disposto a pagare interamente.
   La prova? Eccogliene una, banale finché si vuole ma non per ciò meno significativa.
   A me non garba, da un punto di vista puramente linguistico, che altri mi mandi i suoi «cari saluti». A questo proposito scrissi, e feci pubblicare tempo fa su un quotidiano, un trafiletto, e, da quella volta, a chi mi manda i «cari saluti», rispondo inviandogli un ritaglio di quel giornale. Orbene, anche lei chiude allo stesso modo le sue brevi, carissime righe, e io, pur sentendomi tentato di accluderle quel ritaglio, mi accorgo che stavolta me ne manca il coraggio. Perché? Forse per il timore di espormi al ridicolo, come quel calzolaio che suggeriva al pittore di modificare, nei quadri, il disegno delle scarpe? No, il motivo è ben altro, io lo so: è la paura che anche lei, come tutti gli altri, si senta ferito e si offenda e mi volti sdegnosamente le spalle. Nel suo caso è una paura assurda, lo capisco, ma è una paura che deriva da un invincibile «riflesso condizionato» e che determina questo mio senso di sfiducia e questa mia sleale reticenza. Sì, sleale, perché, in fondo, il mio ritegno è determinato solo da un calcolo gretto, vile, meschino: quello di mantenere la sua benevolenza sotto il riparo del mio infingimento, nella paura di perdere tutto per avere di più.
   Mi piacerebbe molto parlare a viva voce con lei di questo e di altri argomenti, ma purtroppo a Roma non ho né l'occasione né la possibilità di venire. Lei, piuttosto, che immagino spesso in viaggio lungo tutta la penisola, se dovesse passare da Trieste, farebbe grande piacere a me e a mia moglie accettando la modesta ospitalità che potremmo offrirle. E anche se dovesse recarsi solo nel Veneto e me lo facesse sapere a tempo, io approfitterei con gioia di un giorno festivo per raggiungerla.
   Voglia gradire i miei saluti più cordiali e credermi il suo

affezionatissimo Oliviero Mogno