Oliviero Mogno

MISCELLANEA
LETTERE

DELLA RESPONSABILITA DELLA PERSONA




 



Da Trieste, il 21 febbraio del 1967

   Illustre Professore*,
   Lei non può immaginare quanto Le sia grato di avermi mandato il Suo opuscolo sulla morale dell'avvenire. L'ho letto con avidità e debbo dirle che da molti anni non mi accadeva che una lettura suscitasse in me un interesse, oserei dire una passione altrettanto viva e profonda. Se è vero, per amor di sincerità debbo pur dire anche questo, che mi sembra di non poter assentire completamente su taluni punti (ma il mio giudizio critico non è stato ancora sufficientemente meditato e approfondito), sono, d'altra parte, consenziente, completamente ed entusiasticamente, su molti altri, soprattutto su quelli che costituiscono i motivi ispiratori e rivelano l'altissimo anelito ideale della Sua teoria, anzi della Sua dottrina.
   Ho già scritto all'editore Sansoni per avere altre copie della pubblicazione onde distribuirle ai miei confratelli e farne oggetto delle prossime discussioni. Noi Verenesi (il Capitolo originario fu costituito sul monte Verena) ci occupiamo essenzialmente di problemi etici, anche in rapporto alle norme legislative. L'ultimo argomento dibattuto è stato quello della definizione stessa della morale alla quale noi non possiamo attribuire un valore meramente utilitaristico in funzione sociale. Per esempio, secondo noi, l'obbligo legale, imposto al teste, di rivelare tutta la verità sotto giuramento costituisce, oltrecché un illecito arbitrio, un'assurdità, e ciò perché ogni uomo deve essere padrone tanto del proprio pensiero quanto della propria conoscenza e perché il valore morale del giuramento cessa, ipso facto, allorché viene pronunciato sotto costrizione e pertanto il giuramento medesimo perde, in tali condizioni, qualsiasi effetto vincolante. La legge stessa, del resto, pur non rendendosi conto di tale evidente assurdità, riconosce implicitamente il proprio abuso quando ne concede dispensa ai medici e ai preti, ma dimentica di considerare che, da un punto di vista morale, tutti gli uomini, in maggiore o minor misura, sono o possono essere medici e confessori e che pertanto non è ammissibile, sotto questo profilo, di concedere tali facoltà elusive soltanto agli iscritti a determinati albi professionali o sindacali.
   Illustre Professore, La prego di voler benevolmente scusare la lunga digressione e di gradire, con rinnovati ringraziamenti, il saluto deferente e veramente cordiale del

Suo affezionatissimo Oliviero Mogno

 

   * Lettera inviata al Prof. Ugo Spirito. A proposito dell'Ordine Autonomo dei Monaci Verenesi, cui si fa scherzosamente cenno nella lettera, si veda la nota a «L'ORDINE AUTONOMO DEI MONACI VERENESI».

 

Da Trieste, il 16 marzo del 1967

   Illustre Professore,
   Ho letto, riletto e ponderato la Sua «Morale dell'avvenire» e ora vorrei, se me lo consente, esprimerle in proposito alcune mie considerazioni critiche. Considerazioni di carattere più che altro empirico, ché non è nelle mie consuetudini, né nel mio abito mentale, addentrarmi nei labirinti dialettici della filosofia. Io non sono né filosofo né scienziato: professionalmente sono solo un modestissimo tecnico-meccanico, ma ciò nondimeno sento profondamente, come uomo, tutta l'importanza dei problemi etici, sia in rapporto all'individuo che alla società, e se oso scrivere a Lei a tale riguardo è solo perché Ella, nella Sua memoria, auspica la pratica introduzione di alcuni mutamenti nei futuri ordinamenti legislativi che dovrebbero essere informati alla teoria che Ella stesso sostiene e propugna.
   Secondo il mio sommesso parere, una volta negata la duplicità della natura umana (anima corpo), si deve inevitabilmente ricondurre ogni facoltà individuale all'ambito biologico. Pertanto, la responsabilità (intesa nel senso che Ella dà a questo termine), sia essa individuale che collettiva, sia dell'individuo posto di fronte a se medesimo che al prossimo, non potrebbe giammai sussistere perché, per sussistere, implicherebbe quell'assoluta indipendenza della facoltà di arbitrio che in realtà non esiste, e non esiste proprio per il motivo che ogni atto individuale o collettivo non è che una manifestazione di quella realtà di cui tanto l'individuo quanto la collettività fanno parte.
   Si dovrebbe quindi accettare pienamente quella teoria positivistica ferriana che invece Ella parzialmente respinge sia ammettendo la responsabilità collettiva, sia ammettendo la responsabilità del singolo nei confronti di se stesso. E la giustificazione di tale Sua ripulsa starebbe, a quanto mi è parso di capire, in una particolare concezione dell'io inteso come individuazione della realtà. Può darsi che codesta giustificazione sia valida anche se a me sembra di non averla intesa molto bene. A me, infatti, parrebbe che se io non posso giudicare un altro per il motivo che, per farlo, dovrei contrapporre a me il mondo (di cui egli è un'individuazione) e quindi giudicarlo dal di fuori (il che è impossibile perché di questo mondo io stesso faccio parte indissolubilmente), a maggior ragione non posso giudicare me stesso perché non posso porre di fronte al mio io l'oggetto del mio giudizio che è l'io medesimo. Comunque mi riserbo di tornare ancora su questo punto che, evidentemente, è di importanza determinante.
   Più comprensibile mi sembra invece il movente, mi scusi il termine, psicologico della Sua ripulsa, e cioè la Sua ribellione all'idea del determinismo che ne è implicata. Se ogni atto umano è la conseguenza inevitabile di tutti gli eventi (fisio-patologici, ambientali etc.) che l'hanno preceduto, tale atto, se pure imprevedibile, è predeterminato. Ogni azione umana, allora, è predeterminata: tutto quello che si fa o si farà è già scritto nel «libro del destino», così come nel libro del destino è già scritto, minuto per minuto, l'andamento futuro del tempo meteorologico. È questa un'idea che sembra sminuire la dignità dell'uomo riducendolo a pura funzione strumentale, è un'idea che psicologicamente ripugna, che ripugna perfino nell'applicazione alla meteorologia, tanto è vero che i meteorologi, per abbatterla, hanno coniato l'espressione di comodo di «evento casuale», la quale è espressione assolutamente priva di senso, anche se in questa occasione mi sembra fuori luogo l'opportunità di contestarla. Comunque tutti sappiamo che il «caso» non esiste, così come non esiste il libro del destino. Possiamo sì, per comodità, chiamare caso quella rigorosa catena consequenziale che sfugge alla nostra limitatissima capacità d'indagine, così come possiamo chiamare «libro del destino» l'immaginaria estrapolazione di eventi che, per non essersi ancora attuati, non sono nella realtà. La ripugnanza psicologica verso il determinismo trova la sua origine nella fallace impressione che, essendo tutto predeterminato, verrebbe a mancare il motivo di ogni nostro sforzo volitivo per conformare gli eventi ai nostri ordinati disegni. Ma, come dicevo, si tratta di una impressione fallace, e vorrei cercare di dimostrarlo ricorrendo a una pratica esemplificazione.
   Io guido l'automobile da quando avevo 18 anni, e in 42 anni di guida non mi è mai occorso alcun incidente, nemmeno di scalfire per un'estensione di un solo millimetro quadrato la vernice della mia macchina. La Compagnia, presso la quale sono assicurato, mi ha dimostrato, sulla rigorosa base statistica di milioni di casi, che io rappresento un'eccezione. Ma a cosa si deve questo fatto eccezionale? Alla mia eccezionale capacità di attenzione: attenzione non limitata alle consuete norme del buon guidatore, ma estesa, al di là di queste, nel tempo e nello spazio, fino alla possibilità di prevedere, con notevole anticipo, tutte le condizioni e le situazioni determinate dagli eventi che le precedono. Orbene, io sono del tutto consapevole di questa mia eccezionale facoltà, so che, proprio per questa, non mi è mai accaduto alcun incidente e so che, proprio per questa, le probabilità di futuri incidenti si riducono a entità numeriche del tutto trascurabili e pertanto, ogni volta che mi accingo a partire in macchina, parto con assoluta tranquillità Ma sarei ben sciocco se pensassi che, data questa quasi assoluta improbabilità di incidenti, mi sia concesso di non prestar più la consueta attenzione. Se, in senso metaforico, vogliamo parlare di libro del destino, ebbene sì, io credo di sapere che in quel libro sta scritto: «A lui non capiterà mai alcun incidente perché durante la guida non rallenterà mai la sua straordinaria capacità di attenzione». Io so dunque che l'incolumità mia e della macchina è condizionata a questa mia eccezionale qualità e che quella dura finché dura questa, e per questo motivo non ismetterò mai di trascurare la mia dote eccezionale, ma anzi mi sento ogni giorno di più invogliato e stimolato di svilupparla, affinarla, perfezionarla.
   Riconosco che questa esemplificazione automobilistica pecca di banalità, ma mi sembra che ciò non diminuisca la validità del mio assunto poiché le conclusioni che se ne traggono possono essere estese a ogni altro tipo di attività fisica, psichica, intellettuale e morale.
   Prima, parlando di «responsabilità» ho aggiunto l'inciso «come l'intende Lei» perché, evidentemente, Ella considera la responsabilità in senso assoluto. Io, a questo termine, do un significato molto più ristretto, anzi letterale, e cioè capacità di rispondere, di giustificare. In questo senso limitato della mia accezione, io credo, proprio all'opposto delle Sue affermazioni, che ogni uomo deve essere tenuto responsabile, sia verso se stesso che verso la società, del proprio programma, mentre non può essere ritenuto responsabile della sua capacità di attuazione del programma medesimo.
   Mi si perdoni se, ancora una volta fo ricorso a un esempio piuttosto banale, ma non per questo privo di significato.
   Io ho un dente cariato che mi duole e quindi penso di sottopormi a opportuna cura odontoiatrica. Temo assai il dolore fisico e so che il dentista, per curare la carie, userà il dolorosissimo trapano, ma so anche che, se mi sottraessi alla cura, il male che me ne deriverebbe sarebbe ancor peggiore. Metto quindi in programma di recarmi dal dentista, assoggettarmi al trapano e resistere a quel tormento senza imprecare e senza compiere, durante la trapanazione, quei movimenti inconsulti che potrebbero pregiudicare la buona riuscita dell'intervento operatorio. A me sembra che il mio programma sia logico, razionale e, comunque, mi sentirei in grado di giustificarlo di fronte a qualsiasi critica. Mi assumo quindi la piena responsabilità della mia decisione sia di fronte a me stesso sia di fronte a chiunque volesse contestarne la validità. Vado dunque dal dentista e, di mia piena volontà mi sottopongo al trapano. Orbene, fino a un certo punto resisto, ma poi, sotto l'incalzare dello spasimo lancinante, emetto grida prive di senso e, un bel momento, mosso da un impulso che la mia volontà non riesce più a dominare, do uno strattone al medico provocando lo slittamento della punta trapanante che, in tal guisa, va a lacerarmi il palato.
   Debbo constatare che il mio comportamento è stato del tutto diverso da quello che avevo programmato, e in fede mia non saprei dare a nessuno e nemmeno a me stesso altra giustificazione che non sia questa: ho agito così perché l'azione è sfuggita alla mia capacità di controllo. In altri termini: ho agito così perché mi trovavo in istato di irresponsabilità.
   Se al dolore fisico, di cui ho parlato, si sostituisce il dolore morale, provocato da un'offesa, da una grave mortificazione, da una delusione cocente, si vede come una buona parte dei delitti avvengano sotto la spinta di forze incontrollabili che tolgono qualsiasi giustificazione morale alla sanzione punitiva della legge. D'accordo. Ma, per tutti quegli altri delitti che sono compiuti freddamente, in perfetta aderenza a programmi delittuosi studiati e calcolati con consumata abilità professionale da specialisti privi di qualsiasi scrupolo morale? Anche per costoro l'impunità o, tutt'al più (giacché la stessa criminalità è da considerarsi una particolare forma patologica della psiche) la segregazione coatta in una confortevole e accogliente casa di cura specializzata?
   A questo interrogativo la mia risposta è: in linea teorica sì, in linea pratica no. No per inderogabili motivi di necessità d'ordine pratico. Mi rendo conto perfettamente della gravità di questa incoerenza, ma debbo confessare di non riuscire a escogitare un'altra soluzione accettabile, e temo che purtroppo nessuno mai riuscirà a escogitarla.
   Il fatto è che, mentre per i delitti o i crimini compiuti in istato di irresponsabilità totale o parziale la sanzione punitiva non eserciterebbe affatto, o eserciterebbe solo in minima misura, una funzione inibitoria, per quelli compiuti, invece, in stato di piena consapevolezza, la sanzione punitiva costituisce senza dubbio un freno potentissimo. Sorvoliamo pure sui più evidenti casi-limite dei due tipi estremi di criminalità (il marito accecato dalla gelosia che spara sulla moglie colta in flagrante adulterio, il quale non può pensare in quell'istante di follia alle conseguenze del suo atto; e la banda organizzata per depredare le banche, la quale, prima di agire, mette in conto con previdente calcolo e scientifico acume tutte le possibilità di rischio) e consideriamo piuttosto un fenomeno socialmente ancora più importante per la vastità della sua estensione: quello della circolazione automobilistica. Se dovessimo abolire le multe, che sono indubbiamente delle sanzioni punitive, cosa accadrebbe della già caotica e, aimé, cruentissima circolazione stradale? Chi rispetterebbe più le norme del codice della strada? In un primo momento forse il 20 o il 30% degli automobilisti più coscienti, ma poi questi, essendo una minoranza, si accorgerebbero di costituire un'eccezione e quindi un maggiore intralcio al nuovo tipo di traffico, sicché dovrebbero essi pure adeguarsi al generale stato di anarchia. Conclusione: il numero degli incidenti e dei morti aumenterebbe a dismisura.
   Oppure vorremmo abolire le multe, ma d'altra parte impedire che i trasgressori del codice perseverino nella loro biasimevole condotta sottoponendoli a un adeguato periodo di rieducazione obbligatoria in apposite case di cura? Bisognerebbe prima costruire queste case di cura capaci di ospitare qualche milione di associati.
   Avevo manifestato, al principio, l'intenzione di ritornare sul tema dell'io come individuazione della realtà. A questo proposito vorrei dire che non mi sembra del tutto chiaro cosa si intenda per io.
   Se per io si intende la persona umana, allora bisogna dire che questo io è, di fatto, la somma di tanti io diversi e talvolta contrastanti tra loro. Vi è l'io neuro-vegetativo, che può essere turbato da astenia congenita; l'io mentale, che ragiona in una certa maniera; l'io psichico che sente e imprime all'io fisico impulsi emotivi contrastanti a quelli impressi dall'io mentale; l'io della coscienza o del conscio, che giudica i problemi morali in un certo modo; l'io del subconscio, che di quando in quando affiora o travalica sopraffacendo coscienza e volontà. E poi ce ne sono tanti altri di questi io, forse una infinità, a cominciare da quello endocrino, con le sue innumerevoli funzionalità ormonali; a quello sessuale, che ha le sue particolari esigenze che investono potentemente la sfera psichica e fisiologica; a quello linfatico, a quello cellulare, se non addirittura a quello cromosomico e forsanco a quello di più riposte parti elementari con le loro particolari, anche se non ancora ben conosciute, interazioni elettro-magnetiche.
   Se, dunque, per io si intende, come dicevo, la persona, cioè la somma di tutto ciò, questo io è, in effetti, una molteplicità, oserei dire una moltitudine, e allora non vedo come possa essere considerato una individuazione della realtà. Se invece per io si intende uno solo di questi innumerevoli io particolari, allora bisognerebbe prima di tutto stabilire e definire esattamente la sua individualità, e poi bisognerebbe vedere se sussista ancora la possibilità che esso sia posto di fronte alla sola realtà esterna, quando esiste pure una realtà interna (tutti gli altri io) che si interpone.
   In conclusione, ho l'impressione che questo «io, individuazione della realtà» o centro dell'universo, che dir si voglia, non sia, a sua volta una realtà, ma piuttosto una astrazione dalla realtà e cioè un concetto puramente convenzionale, e che pertanto anche il concetto di responsabilità di fronte a se stesso debba necessariamente cadere.
   Illustre Professore, io capisco bene che un umile meccanico che muove di queste critiche spicciole al maggior filosofo italiano commette un atto di grave impudenza. Ma confido che Ella, nella Sua superiore capacità di comprensione, voglia benevolmente perdonarmi l'ardire e voglia considerare tutto quello che ho detto per ciò che realmente è nelle mie intenzioni e cioè un attestato della mia riconoscenza, per le idee che Ella mi ha trasmesso e suscitato, della mia profonda stima e del mio sincero sentimento di affetto.

Suo devotissimo
Oliviero Mogno

 

   Caro Ingegnere,
   La ringrazio della sua lettera, che dimostra un interesse vivo per il mio pensiero. La mia aspirazione è stata sempre quella di far pensare e non di far pensare come me. I dissensi, quindi, mi piacciono più dei facili consensi.
   Le obiezioni che mi rivolge sono molto serie e dimostrano una maturità filosofica non comune. Naturalmente non mi è dato rispondere senza riprendere le fila di tutto il mio discorso e questo implicherebbe un tempo che purtroppo non ho. Posso soltanto dirle che per intendere meglio il mio saggio su La morale dell'avvenire occorre vederlo nel contesto di uno svolgimento più ampio. Questa è la ragione per cui ho ripubblicato il saggio nel recente volume Dal mito alla scienza (Firenze, Sansoni, 1966), nel quale, tra l'altro, v'è un capitolo intitolato L'esperienza di me. In tale capitolo ho cercato di chiarire il concetto di un io inteso come individuazione dell'universo. Ma tutto il libro, poi, è un'illustrazione continua del mio pensiero nell'ultima fase del mio faticoso cammino. E spero che il cammino non si fermi e che mi consenta un'ulteriore revisione dell'attuale punto di arrivo. Grazie ancora e molti cordiali auguri del suo

Ugo Spirito

24-3-1967

 

Da Trieste, il 17 giugno del 1970

   Caro Maestro,
   Ho ascoltato, la settimana scorsa, il Suo intervento alla trasmissione televisiva «Boomerang» e vorrei dirle, anzitutto, che la Sua presenza in casa mia, per quanto nell'irreale e fugace immagine del video, ha ridestato in me quel vivissimo senso di interesse e di simpatia che sempre le Sue parole e i Suoi scritti riescono a suscitare.
   In merito all'argomento trattato, vorrei ancora dirle di condividere l'opinione che i più recenti approfondimenti scientifici sulla genetica offrano nuovo materiale all'indagine teoretica intorno all'essenza dell'uomo e quindi ai suoi attributi reali o presunti, tra i quali, in primo luogo, quello della responsabilità personale. E, a tal proposito, vorrei soggiungere che mi son sembrate del tutto risibili e puerili le obiezioni a Lei mosse dai teologi della Gregoriana, Suoi contraddittori: «Il solo fatto che noi abbiamo deciso di riunirci qui stasera, dimostra che...». Cosa dimostra? Non dimostra proprio nulla perché è fuori discussione che ogni persona si comporti, il più delle volte, secondo le proprie decisioni: tutto sta a vedere se tali decisioni siano o meno determinate da facoltà autonome, da facoltà, cioè, che trovino origine e fine in se stesse, oppure da facoltà che gli siano trasmesse o che, comunque, siano condizionate da fattori a lui estranei, nel qual caso l'individuo, pur capace di decidere e di agire in conformità, non può esser ritenuto responsabile né delle decisioni prese né delle azioni svolte.
   Anche a me, in verità, sembra che tali facoltà individuali autonome, e quindi responsabili, non esistano e pertanto potrei gustare appieno la soddisfazione di trovarmi con Lei d'accordo se non fosse per un dettaglio che non ho mancato di rilevare alla fine del Suo intervento. Infatti, se ho ben capito, Lei, pur negando il principio della responsabilità individuale, ammette, ciò nondimeno, quello della responsabilità collettiva, cioè della responsabilità sociale, come se una collettività, ristretta o generalizzata che sia, possedesse, a differenza dell'individuo, facoltà decisionali autonome, cioè non condizionate.
   Questo punto, francamente, non riesco a capirlo. Che differenza sostanziale può esserci tra individuo e collettività? L'individuo non è forse egli stesso una collettività? Se le facoltà di un individuo sono condizionate da quelle delle generazioni ascendenti, quelle di una collettività non lo sono forse altrettanto? Le trasmissioni genetiche e le condizioni ambientali non agiscono forse nell'istesso modo su entrambi? Non siamo tutti, su questa Terra, figli del Sole le cui interazioni massiche magnetiche e radiative determinano e condizionano ogni forma di vita? Il concetto di individuo e di collettività (cioè di molteplicità organizzata) non mi sembrano assoluti, ma relativi: ogni individuo è molteplicità organizzata e ogni molteplicità organizzata è individuo, e ciò in una scala estensiva senza limiti né qualitativi né quantitativi, né spaziali né temporali. L'atomo stesso è collettività organizzata e l'intero sistema galattico è individuo.
   Se, in una collettività umana, alcuni individui compiono atti criminali, la responsabilità dei crimini non potrebbe essere attribuita a tali individui, ma dovrebbe essere attribuita piuttosto alla collettività da cui essi sono condizionati; all'istesso modo come se, in quella organizzazione biologica che chiamiamo organismo, alcune cellule degenerassero in neoplasia, non potremmo ragionevolmente imputare la responsabilità del fatto patologico alle cellule degenerate, ma dovremmo imputarla semmai all'intero organismo che portava già in sé il germe del male o l'incapacità di debellarlo. Ma alla stessa stregua dell'individuo umano o cellulare mi sembra che dovremmo pure considerare una intera collettività di uomini affetta da nanismo o da sgradevole colore cutaneo o da cretinismo o da congenita malformazione o da endemica malattia o da istinti sanguinari, perché tale collettività è, a sua volta, condizionata da fattori ambientali ed ereditari di cui essa non può essere ritenuta responsabile. E di questo passo, facendo risalire la responsabilità del singolo al molteplice che lo comprende e quindi lo condiziona, dovremmo percorrere tutta la via che va dalla particella sub-atomica all'intero universo, al Tutto o, se vogliamo esprimerci con un linguaggio figurato e pittoresco, a Dio, il quale essendo l'unico a essere condizionato da se medesimo, assommerebbe in sé, ed esclusivamente in sé, la responsabilità di ogni evento.
   Caro Maestro, tutto ciò che mi sono permesso di dirle non costituirà, probabilmente, che una congerie di paradossi, di paralogismi o, addirittura, di filosofemi, ma di questo mio filosofico turpiloquio, proprio per l'impossibilità di attribuire responsabilità individuali, non mi faccia una colpa, così come non mi faccia alcun merito del sincero e vivissimo sentimento di stima e di affetto che nutro per Lei. Voglia comunque, La prego, gradire il saluto deferente e cordiale del

Suo devotissimo
Oliviero Mogno

 

   Caro Ingegnere,
   La ringrazio molto della sua bella lettera e delle osservazioni che mi rivolge. Spero di rivederla presto e di esporle meglio il mio pensiero. Per ora mi limito a sottolineare il fatto che l'uomo, concepito individualisticamente, non può essere responsabile in modo autonomo; e fin qui mi sembra che tra noi sia pieno accordo. L'uomo, invece, concepito socialmente coincide con tutta la realtà cosmica e ha la responsabilità cosmica che è proprio di ogni parte coincidente col tutto. Questi concetti sono ampiamente sviluppati nel mio libro Dal mito alla scienza edito dalla casa editrice Sansoni.
   Grazie ancora e molti cari saluti dal suo

Ugo Spirito

23.6.1970

 

Da Trieste, il 2 luglio del 1970

   Caro Maestro,
Mi permetta, La prego, di ringraziarla, a mia volta, della Sua lettera tanto cortese e di assicurarla che il Suo libro «Dal mito alla scienza» (con i margini delle pagine tutti tempestati di note, osservazioni, richiami e chiose) occupa già da tempo un posto d'onore nella mia biblioteca, e nei miei pensieri.
   In questa Sua opera vi sono dei punti che, evidentemente, non sono ancora riuscito a capir bene, come quelli, appunto, che riguardano l'appassionante problema etico della responsabilità, in cui mi è sembrato di scorgere contraddizione tra la formale negazione e la sostanziale affermazione (sia pur spostando i termini dall'individuo alla società) di quella concezione tolomaica che più che mai persiste nell'idealismo gentiliano. Ma ciò deve certamente dipendere, oltre che dalle mie troppo deboli facoltà speculative, dal troppo poco tempo che finora ho potuto dedicare a questo studio, sicché mi riprometto di riesaminare, appena possibile, tutta la questione.
   Nel frattempo, spero vivamente che si presenti l'occasione di incontrarla. Io, a Roma, non vado più da moltissimi anni, ma se a Lei capitasse di venire da queste parti, non manchi, La prego, di concedermi il grande piacere e l'onore di accettare la modesta ospitalità che potrei offrirle.
   Ancora moltissime grazie e mi creda sempre

Il suo devotissimo
Oliviero Mogno